Se l’arte parla il linguaggio della catastrofe. Petr Davydtchenko all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila

P. Davydtchenko, Language of Catastrophe

In una perfetta equazione tra arte e vita, la sua scelta esistenziale, fatta di rigore, disciplina, estrema adesione alla propria visione del mondo, chiede all’arte di parlare il linguaggio della catastrofe (“Language of Catastrophe”). Una lingua necessaria e imprescindibile come denuncia delle brutali ricadute del progresso e per scuotere le coscienze assuefatte alla distruzione continuamente operata dall’uomo ai danni della natura. Per il poco più che trentenne ma già affermato artista russo Petr Davydtchenko l’antidoto a tale radicale idiosincrasia verso il progresso è la cura pietosa delle vittime più indifese, gli animali domestici e selvatici morti violentemente sulla strada, impattati dalle automobili in corsa, che egli  raccoglie e trasforma in cibo per sé e nutrimento per la sua arte.

Dopo avere parlato agli studenti dell’Accademia di Brera ai primi del mese, in un incontro promosso da Sergio Nannicola e Marco Pellizzola quale anteprima alla prima mostra italiana dell’artista, “Millenium Worm” (letteralmente “Il verme del millennio”), dal 16 marzo al Centro per l’Arte Contemporanea Palazzo Lucarini di Trevi, giovedì scorso Davydtchenko è stato ospite dell’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, dove ha illustrato la sua straordinaria e  perturbante esperienza di artista.

A cominciare dalla sua infanzia nella città militare chiusa di Arzamas e dai suoi studi in Russia, prima del trasferimento in Europa. Ha raccontato della sua ammirazione per l’artista  Andrei Molodkin e per la sua pratica di riempire contenitori trasparenti di liquidi misti a petrolio e sangue umano. Incontratolo finalmente a Parigi nel 2013, fu di ispirazione la partecipazione alla mostra “Immigrant Blood”, in cui, come evento centrale dell’installazione, Molodkin invitava i richiedenti asilo a donare il proprio sangue all’interno di una postazione medica, collegata, tramite un sistema di tubi, a un grande contenitore acrilico con le sembianze della Marianna, simbolo di Francia, per suscitare attenzione sulle dinamiche tragiche dei flussi migratori.

La condivisione della tematiche di Molodkin porta Davydtchenko a legarsi ad una comunità di artisti che vivono ed operano in una ex fabbrica di armamenti della seconda guerra mondiale, nel Sud della Francia. “Un’energia proletaria si sprigiona da questo luogo – dice – 2500 metri quadrati di libertà creativa e di propaganda per il linguaggio della catastrofe”. Inizialmente lavora anche per altri artisti, come Santiago Serra e Andres Serrano, con i quali più tardi condividerà un importante evento artistico, quando il suo progetto “Go and Stop Progress!” sarà inserito nella presentazione della collezione di “A/Political” a Dublino,  ma ben presto il suo personale spazio d’artista prenderà forma insieme alla sua rigorosa dimensione esistenziale e alla scelta di scrivere il linguaggio della catastrofe nel proprio corpo e nella sua arte.

Dal novembre 2016 incomincia, infatti, a cibarsi delle carni di quegli stessi animali morti che trova, e che oggi altri gli portano, sulle strade circostanti il villaggio di Maubourguet, dove si trova la factory. La sua giornata incomincia al mattino presto con un bagno nelle fredde acque del lago, poi in bicicletta percorre i dintorni per un raggio di 30 Km; ma non si limita a raccogliere le carcasse. Fotografa la “scena del crimine”, ricostruisce la dinamica degli impatti, si documenta. Da uno chef del posto si fa insegnare a tagliare e a cucinare le carni, di cui si nutrirà, congelandole, assumendo su di sé, consapevolmente, anche l’eventuale rischio per la salute che potrebbe derivarne. Una pratica rituale che nelle parole dell’artista serve “a restare collegato con la sostanza della realtà”.

Nella mostra di Trevi, di cui ha mostrato alcune immagini, l’artista ha riletto l’edificio espositivo tramite un’installazione estesa, fatta di pannelli di legno e stoffe militari e creando forme architettoniche che rimandano a delle croci. All’interno sono poste delle forme geometriche fatte con le pelli degli animali recuperati, insieme a immagini che documentano la prassi  dell’artista, la preparazione delle carni e delle pelli, il loro sangue. La macchina, simbolo di modernità, diventa espressione della “distruzione come conseguenza primaria del progresso”.

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