Dialogo con Claudio Di Scanno

“Arti al Vivo” dà avvio ad un percorso di conoscenza ed approfondimento critico di biografie e prassi artistiche particolarmente significative ed influenti. Il primo di questi affascinanti dialoghi coinvolge il regista e dramaturg Claudio Di Scanno, fondatore e direttore artistico del Drammateatro. Nella lunga intervista che segue, egli riflette le scelte, le visioni e il valore culturale e politico della vicenda indomita, impegnata e coerente del suo teatro, e della sua vita per il teatro.   

Arte come vita. Come si originò la tua scelta di campo e come immaginasti la tua vita nel teatro?

Mi sono avvicinato al teatro per un particolare effetto estensivo dell’attivismo politico, che a metà degli anni ’70 del secolo scorso coinvolgeva i giovani non solo in chiave ideologica, partitica o movimentista. Era forte il desiderio di maturare visioni e proiettarle verso un futuro che era lecito immaginare diverso, in termini di socialità, relazionalità, lavoro, meglio se un lavoro tutto da inventare. Il teatro in tal senso mi era apparso come un’opportunità formidabile. Così, reduce da una esperienza di animazione culturale nei quartieri disagiati di Pescara (lavoravo in una cooperativa per l’occupazione giovanile) mi misi a cercarlo. Avevo letto qualcosa del Living Theatre e dell’Odin Teatret, così come di Grotowsky e della sua “setta” quasi segreta di attori che in Polonia erano dediti a realizzare esperienze sull’arte dell’attore e meraviglie sceniche. Living e Odin, nelle differenze, avevano mobilitato le percezioni verso percorsi e forme inusuali: cercavano spettatori, ovunque, dalle grandi città agli angoli più distanti, teatralmente parlando, magari della Barbagia o nelle carceri e nei manicomi…luoghi avulsi dai circuiti assodati dell’organizzazione culturale e teatrale. Luoghi per nuovi scambi d’intensità percettiva, per un teatro che aveva bisogno di essere altro e queste grandi esperienze del ‘900 lo stavano edificando, sia come dinamiche artistiche interne, di gruppo, sia come nuove relazionalità tra attori e spettatori. Tutto ciò che riuscivo a cogliere di loro, attraverso i libri o anche gli articoli di giornale, un miracoloso servizio televisivo di un Telegiornale RAI sull’incontro dei gruppi di teatro a Casciana Terme…tutto ciò che coglievo di loro mi riguardava, in modo non del tutto chiaro in termini teatrali ma chiarissimo in termini politici e quindi culturali. Di quel servizio RAI ricordo un passaggio, alcune immagini di uno spettacolo presentato da un gruppo argentino, la Comuna Nucleo, il cui titolo era “Erodes” e parlava dei desaparecidos. Uno spettacolo forte, finanche violento ma certamente efficace perché perturbante. Decisi di cercare Cora Herrendorf e Horacio Czertok che, nel frattempo, in esilio in Italia, avevano fondato il Teatro Nucleo e lavoravano nell’ex manicomio di Ferrara…La mia vita cambiò da quell’incontro e dalle pulsioni precedentemente generatesi dentro di me attraverso il Living, l’Odin, il Teatr Laboratorium. Non fu una scelta di campo, non dovetti scegliere tra questo o quell’altro teatro, fu la scelta dell’unico luogo teatrale che poteva riguardarmi e coinvolgermi, così tanto da orientare la mia vita. Fu da quel momento che il teatro divenne la vita stessa, ben conscio del fatto che sarebbe stata durissima. Io non avevo mezzi economici e certamente non ero il rampollo con velleità artistiche che una ricca famiglia poteva assecondare! Come immaginai all’epoca la mia vita nel teatro davvero non lo so. Ciò di cui ero conscio si riferiva ad una precisa cognizione: non potevo cercare scorciatoie, come ad esempio fare l’impiegato o l’insegnante o lo spazzino comunale come mio padre e poi alla sera dedicarmi al teatro. Dovevo fare solo ed esclusivamente teatro, dedicargli totalmente la vita. Questo era ciò che  probabilmente immaginavo e che ho vissuto, senza tregua alcuna, operando peraltro in una regione, l’Abruzzo, che all’epoca davvero era avulsa da fermenti teatrali e culturali diciamo differenti. Il che rendeva tutto oltremodo difficoltoso.

Perché “Drammateatro”?

Perché “Dramma” richiama alle origini del teatro e racchiude in sé tutte le possibilità di progettare il lavoro dell’attore e la drammaturgia (il corpo “danzante”, la vocalità “musicale”, la musica “drammaturgica” etc…) ma anche l’essere politicamente nei drammi dell’Essere e della Vita degli uomini. Una parola semplice eppure complessa se la si guarda oltre gli stereotipi e le catalogazioni. 

Quali furono i riferimenti: esperienze, visioni, persone che orientarono il cammino?

Quando è sorto il Drammateatro, nel 1985, una delle cose che mi premeva particolarmente era l’urgenza di alimentare il territorio culturale e della teatralità, per questa ragione cercavo sostegni per invitare degli artisti e dei maestri autentici, dei testimoni in carne di quanto accadeva oltre le mura. Non erano inviti casuali, per riempire griglie di rassegne senza alcun orientamento, e neanche motivati dalle logiche perverse dello scambio di spettacoli o roba del genere. Se riuscivo a far venire in Abruzzo, a Pescara o anche a Popoli, Riszard Cieslak o Iben Nagel Rasmussen, Eugenio Barba e Judith Malina, Horacio Czertok e Cora Herrendorf, o diversi artisti e gruppi italiani, se riesco a far vedere il loro lavoro, i loro spettacoli, ad abbinarci incontri con il pubblico e seminari per gli attori, collocandovi intorno la voce autorevole di docenti e studiosi come Franco Ruffini, Claudio Meldolesi, Antonio Attisani, Piergiorgio Giacchè, Ferdinando Taviani… se vi riesco, allora ho l’opportunità di nutrire quel territorio dell’arte e della cultura teatrale che so essere non solo importante per noi, Drammateatro, ma indispensabile alla crescita culturale di un’intera regione. E, mi dicevo, se la regione nella quale lavoro ha questa possibilità, di allargare cioè gli orizzonti, allora anche la presenza del Drammateatro può avere il senso di una collocazione propulsiva. Artisticamente poi sono stati quei grandi Maestri a offrirmi, direttamente o meno, tante opportunità di consapevolezza artistica e di umanità. E’ nell’incontro con questi veri Maestri del teatro che a distanza di tempo riscopro ogni volta il mio più preciso orientamento, per le scelte che ho fatto e per quanto ho potuto realizzare in scena. 

Quale è stato il primo approdo, la prima conquista strategica e metodologica della fase degli inizi?

Sai, nel teatro ovviamente ciascuno fa quello che sa fare e agli inizi del cammino alcune cose più di altre incidono sulla tua voglia di sapere come si fa. Gli spettacoli di strada con i trampoli e quelli a pianta centrale erano realizzazioni direttamente provenienti dall’esperienza di incontro con i Maestri che ho citato. Era la risultanza di impulsi rielaborati al filtro della mia sensibilità e che mi portavano a fare teatro nei luoghi senza teatro e che fossero centri storici o periferie urbane, sale trovate nei quartieri o la chiesa di un paesino poco importava. Anzi, era una scelta precisa: io non sognavo di fare uno spettacolo nel teatro canonicamente inteso ma volevo la strada e la piazza, volevo la gente ravvicinata e intorno all’attore come parte integrante dello spazio scenico. Anche oggi, oltre le frequentazioni dei teatri col palcoscenico e la platea, amo tantissimo collocare le mie realizzazioni sceniche in altri luoghi di teatralità, dagli ambienti naturali a qualsiasi spazio che mi stimola artisticamente, qualsiasi esso sia. Una scelta ideologica? Forse. Ma più che ideologica la definirei poetica, perché tanti luoghi altri, anomali, sono molto più stimolanti e liberano tante energie ideative. Sta di fatto che era quello l’inizio del cammino, la consapevolezza di un fare teatro e di un agire con il teatro svincolato dagli obblighi indotti da una cultura teatrale esausta e da una tradizione ammuffita, per cogliere la necessità di liberare quelle energie creative che tanto mi avrebbe dato in termini di consapevolezza e cognizione del teatro. Anche dal punto di vista della tecnica, nel lavoro con gli attori e nell’orientamento degli sguardi del pubblico, nel lavoro drammaturgico di sostanza quindi. Questa necessità era anche la diretta espressione di un mio universo personale maturato in età giovanile e attraversata dai segni della reinvenzione stessa dell’essere protagonisti di una scelta, che è poi quella di definire la mia vita tra disorientamenti e nuovi orientamenti.  

Nella prima metà degli anni Ottanta, alla produzione di spettacoli di strada, come “L’Alba” o al chiuso come “Atti per niente” da Beckett, affiancate un’intensa attività di studio. Organizzate seminari internazionali come quello con il Teatro Nucleo. Con “Ombelicus Mundi” riuscite a riunire cinquanta attori provenienti da ogni parte del mondo. Operazione che parrebbe eccezionale anche oggi, tanto da meritarsi l’attenzione del Dipartimento Scuola Educazione della Rai. Come nacque questo progetto?

“Ombelicus Mundi” nacque dall’intenso rapporto con il Teatro Nucleo, con i suoi fondatori Horacio Czertok e Cora Herrendorf. Loro cercavano un luogo efficace ed io proposi Popoli e soprattutto Raiano, che di fatto divenne il centro reale di realizzazione del progetto. Ricordo i partecipanti che soggiornarono nella scuola del paese, gli spazi urbani, la palestra scolastica, l’Eremo di San Venanzio, il fiume utilizzati come luoghi di training, di creazione scenica, di incontri a carattere pedagogico. Nel contempo si presentavano gli spettacoli del Teatro Nucleo, le dimostrazioni di lavoro, un evento scenico conclusivo nel corso del mercato settimanale! Insomma, un micro mondo di attività molto significative nel pieno di una relazione, anche difficile, con un territorio purtroppo confinato alle estremità della cultura teatrale dominante. Non si trattò certamente di una “colonizzazione” culturale! Per Horacio, Cora e il sottoscritto, all’epoca trentenne, si trattava invece di lavorare in un luogo giusto, anche distante dai fragori metropolitani, dove sarebbe stato possibile realizzare una’esperienza di apprendistato molto speciale e ben recepita dagli spettatori e dagli abitanti. Peraltro la maggior parte degli attori provenivano da altri paesi europei, alcuni di loro arrivarono anche con dei bambini che per il tempo di “Ombelicus Mundi” frequentarono l’asilo e la scuola elementare di Raiano! Si, fu un’esperienza difficile, non assolutamente contemplata dai contesti culturali e teatrali dell’epoca, per questo molto spiazzante.

Nel 1986 Drammateatro organizza a Pescara il convegno “Il teatro e la città”, riflessione riproposta successivamente, ed anche in questi giorni a Popoli. Immaginavi, già allora, la dimensione di un teatro in residence, di un teatro per la città?

A Pescara non solo quel Convegno che tu citi ma furono diverse altre le proposte di riflessione intorno alle nuove sensibilità teatrali, storiche e non, in una città che usava rapportarsi solo con le Stagioni di prosa canonicamente riproposte senza soluzione di continuità. Era paradossale: una città moderna, votata alla modernità, che vuol dire anche attenzione alla contemporaneità delle esperienze artistiche, che non aveva mai avuto la possibilità di confrontarsi con la contemporaneità, soprattutto per quanto concerne la presenza di gruppi intraprendenti come il nostro. Non immaginavo un teatro per la città, avevo allora ed ho anche oggi l’idea plurale del teatro così come della città, pertanto all’epoca il nostro lavoro e quello di pochi altri, il Florian come entità di gruppo, non era stato ancora, come dire?, previsto. Ci si interpretava alla stessa stregua dei gruppi amatoriali, era difficile far capire che noi avevamo una strada altra e differente da tracciare. Eravamo ai margini delle programmazioni, privi di uno spazio idoneo, distanti dai circuiti di attenzione della stessa politica culturale. Erano davvero pochi coloro che iniziavano a comprendere e tra questi, in primis, Gianni Cordova, ex Presidente di un Consiglio di Quartiere e persona molto colta, illuminata, intraprendente, che accettò perché la comprese profondamente la mia idea di costruire, con le poche risorse del Quartiere il Festival Quartiere in Teatro “A Villa Sabucchi”. Un piccolo contesto dove però arrivò il Teatro Nucleo, l’Odin, i gruppi dell’America Latina e diversi altri. E insieme a loro arrivò Barba, e poi gli studiosi come Taviani, Ruffini, Attisani, Volli e altri. Anche lì l’azione era quella di determinare dei contesti efficaci di incontro e confronto con la città. Quindi sì, un teatro per la città. Un teatro non solo come spazio fisico ma come attenzione profonda ai processi in atto, a quei giovani che stavano dedicando al teatro tutta la loro esistenza. Ad un teatro differente e distante dai canoni dell’ufficialità eppure efficacissimo e finanche indispensabile alla crescita della città. Questo era il progetto: far accettare alla città la necessità delle forme altre e plurali della teatralità.

Nel 1988, ancor prima che L’Aquila divenisse crocevia delle attività dell’ISTA e dei passaggi dell’Odin Teatret e dei suoi attori, tu portasti a Pescara Eugenio Barba e “Talabot”. L’anno dopo foste invitati a Holstebro. E’ una relazione, questa, che prosegue per diversi anni, Barba diventa una presenza quasi fissa per alcune edizione del tuo festival “A Villa Sabucchi”.  Che cosa rappresentò questa relazione e come si è evoluta nel tempo?

La relazione con l’Odin era venuta a determinarsi in un certo senso prima dell’Odin! Nel 1983 ero capitato a Popoli per un Seminario con dei giovani che mi fu chiesto dal Comune e anche in quella occasione cercai, diciamo, un’estensione delle possibilità; così riuscii a far venire a Popoli Iben Nagel Rasmussen, attrice storica dell’Odin ma in quel preciso periodo era impegnata a fondare con Cesar Brie il Gruppo Farfa. Presentarono uno spettacolo e Iben fece un incontro pubblico dove parlò della sua esperienza e di come costruiva il suo lavoro d’attrice, nell’Odin e con Farfa. Quello fu il primo vero incontro con l’Odin che poi si sviluppò negli anni successivi, fino all’obiettivo davvero importante di ospitare tutta l’ensemble dell’Odin a Pescara nel Festival che hai citato. Era la prima volta che l’intero gruppo Odin Teatret venne a Pescara e in Abruzzo con lo spettacolo “Talabot”. Il tutto accadde perché, ed è un aneddoto che qualche volta racconto ancora oggi, con la complicità di due Presidenti di Quartiere dell’epoca (era il 1988), Marcello Antonelli e Alfredo Ciferni, con i quali si realizzava il Festival “A Villa Sabucchi”, riuscii ad incontrare l’allora Presidente del Consiglio Regionale. Mi presentai da lui con, tra le braccia, i libri di Barba, di Taviani, di Ruffini, di Savarese, di Meldolesi ed altri ancora (ti assicuro che l’immagine era anche un pochino grottesca!) e con semplicità, dopo averli dispiegati sulla grande scrivania del Presidente, gli dissi: Presidente, io voglio far venire a Pescara l’Odin Teatret, un gruppo danese molto famoso, e questi sono solo una parte dei libri che parlano di loro. Ricordo lo stupore del Presidente, i volti ammiccanti degli altri, la faccia seriosa con la quale mi chiedeva cosa potesse fare per me. Gli dissi cosa doveva fare e mi promise tutto il suo sostegno. E così fece! All’atto di salutarci, mi disse che potevo riprendere tutti quei libri sparsi sulla scrivania…feci finta di non sentire! Ti racconto questo perché è un pezzo di storia non solo del Drammateatro ma di una città e di un’intera regione. Ed io sapevo, ne ero certo, che quella era l’unica strada possibile per allargare l’orizzonte, per tentare di scardinare un muro che stava occludendo la necessità di uno sguardo oltre. Che poi tutto questo lo facessimo noi, piccolo gruppo con soli quattro anni di vita diventava per qualcuno anche sconvolgente, forse anche un pochino pericoloso. 

All’epoca, la compagnia del Drammateatro, oltre che da te, era formata da Lucilla Maragni e Cam Lecce. C’era anche un giovanissimo Andrea Cosentino, che ha poi trovato una sua propria strada, con un certo successo,  come attore. Avvenne, poi, l’incontro con Susanna Costaglione. Come accadde?

Con la complicità di Antonio Attisani, il quale mi indicò Susanna per uno spettacolo che avrei realizzato per il Festival di Santarcangelo: “Endzeit/Discorso sulla fine del Tempo”, ispirato alla biografia di Georg Buchner e a “La morte di Danton”. Quello spettacolo tra l’altro rappresentò non solo l’arrivo di Susanna ma l’apertura di un nuovo capitolo della storia del Drammateatro, sancendo l’inizio di un rapporto di lavoro con Susanna che dura oramai da oltre 25 anni.

Fu proprio a Sant’Arcangelo che ci incontrammo, nel 1994. Rappresentavate “A tutti gli Uragani che ci passeranno accanto”, uno dei maggiori successi di Drammateatro, premiato oltre che dalla critica e dal pubblico, anche dalla diffusione in  DVD con il quotidiano “Il Manifesto”.  Per  me fu l’inizio di un impegno qualificante in quella che avevo individuato come una mia possibile militanza nel mondo del teatro. Tornavo da New York e dal Living Theatre, fu naturale legarmi al Drammateatro, perché vi ravvisavo una necessità storica, culturale e politica del teatro. “A tutti gli Uragani”, con l’approdo al teatro epico di Brecht, mi pare abbia rafforzato la necessità di una dimensione politica, culturalmente influente del teatro. E’ così?

Il pomeriggio successivo al debutto di “Uragani” a Santarcangelo, che all’epoca era diretto da Leo De Berardinis, Claudio Meldolesi mi chiese di partecipare ad un incontro pubblico nel quale io e Marco Martinelli avremmo dovuto parlare dei nostri rapporti con Brecht, ciascuno sulla scia della propria esperienza scenica. Ricordo che accennai ad una sorta di naturalezza con la quale si fanno scelte dettate dalla necessità di dare corpo ed essenza politica al teatro. Evidentemente parlo di necessità in senso preciso, personale, dettato da pulsioni che attengono all’atteggiamento che maturi nei riguardi dell’epoca, dei contesti nei quali agisci attraverso il teatro. Era il 1994, Berlusconi aveva vinto le elezioni e lo spettro di Arturo Ui sembrava aggirarsi di nuovo tra le pieghe di un’idea di società incentrata sul neo liberismo sfrenato…Mahagonny insomma! Con Susanna avevamo iniziato a parlare di un progetto su Madre Coraggio, anche sulle eroine antieroiche di Brecht, poi la scelta cadde su Mahagonny, però con degli innesti di altre figure estrapolate da Brecht, come Pelagia Vlassova da “La Madre” o lo stesso “Arturo Ui”. Personaggi che, con una certa coerenza, ben si collocavano nel tessuto narrativo incentrato su Mahagonny e che anzi tracciavano delle linee drammaturgiche dinamiche e per noi molto interessanti. Fornivano un accento politico capace di proiettare lo spettacolo nella nostra attualità. Naturalmente è bene precisare che permane in me l’idea che il “politico” di cui parliamo non è solo riferito al testo, alla storia narrata. Il teatro assume valenza politica anche, e per certi versi soprattutto, nel come lo fai, nel come reciti quel testo: è l’artisticità dell’azione scenica ad avere pregnanza e potenza politica nell’hic et nunc dello spettacolo. Alla fine è sempre l’arte teatrale, dal testo alla sua messa in forma, a lasciare il segno, ad essere atto politico. Altrimenti resta il testo con i suoi messaggi, ma è già solamente letteratura e non azione. Questo lo sottolineo perché qualche volta si è portati a credere che basta fare Brecht per essere politici! Ma se non lo sai fare o lo fai male allora anche il testo, politico, perde della sua pregnanza politica!

Come Concert/Azione, la musica vi aveva un ruolo diffuso e potente, una funzione drammaturgica propria che proseguì con lo spettacolo successivo, la ballata zingara “Ddui furat Mulò” che, allo stesso tempo, esprimeva l’anelito alla multiculturalità, alla rappresentazione della complessità culturale ed umana del nostro tempo.

Quello di cui parli si riferisce ad un periodo del mio lavoro, alimentato anche da una certa vicinanza all’Odin, spesso rivolto al teatro di altre culture. In realtà non era un interesse, il mio, legato all’antropologia teatrale, così come lo definiva Eugenio Barba, piuttosto era un modo di agire e cercare di trasmettere al pubblico stesso del teatro, al nostro pubblico, un’idea di pluralità. Nel 1996 anche sulla spiaggia di Pescara c’erano i ragazzi neri che vendevano robe, i senegalesi con le prime bancarelle lungo il passaggio che immetteva nella stazione ferroviaria. C’erano culture subalterne che si affacciavano, che iniziavano ad immigrare in Europa, l’avanguardia di ciò che accade corposamente oggi. Così, ogni occasione era buona per dire: guardate, c’è il Kathakali, la danza Orissi, ci sono forme che rispecchiano specularmente la nostra tradizione teatrale, la Commedia dell’Arte e le sue danze, le sue maschere, i suoi corpi grotteschi, anche la sua natura perturbante, destabilizzante. Ci sono i Dervishi rotanti, che pregano nella danza circolare, o le Donne di Marrakech che cantano con i ritmi e la musica delle loro mani…e così via. Ecco, era un modo per dilatare l’attenzione, le percezioni che del teatro normalmente si ha da noi. Era un modo anche politico di agire, di essere culturalmente presenti nei vuoti di conoscenza, sui confini di ciò che è codificazione culturale ed estensione delle possibilità di relazione con le altre culture. Ivi comprese le culture teatrali.

Nel ‘96 prende forma il progetto “Popoli dei Teatri”, accompagnato da un entusiasmo contagioso per la possibilità di creare una cittadella del teatro: fu il concretizzarsi di un’idea di stabilità, di libertà creativa e della possibilità di organizzare un luogo dal quale far irradiare cultura teatrale e cultura tout court. Niente di simile in Abruzzo fino ad allora e una situazione rara in assoluto, in cui il concetto stesso di periferia veniva mutuato in quello di centro, ciò che di fatto Popoli continua ad essere per la cultura teatrale.

Devo dire che in Abruzzo abbiamo avviato percorsi di apertura importanti, sia attraverso i nostri spettacoli sia attraverso un modo di agire con e attraverso il teatro. Era un’eredità personale che voleva esprimersi nel territorio in cui agisci. Ho sempre creduto nell’idea che non conta dove lavori, se in un piccolo paese al centro dell’Abruzzo o in una grande città. E’ il progetto che riesce a dialogare con l’intero mondo delle idee e delle esperienze in atto. In fondo anche il nome del progetto sottolineava questa necessità politica, di politica culturale e teatrale se vogliamo dirla tutta! Popoli dei Teatri è stato il primo esempio in Abruzzo di una “Residenza” teatrale creata in uno spazio istituzionale, il teatro comunale di Popoli. Ma nello spazio istituzionale non si agiva con le dinamiche altrettanto istituzionali stanche ed ammuffite, piuttosto con la risultanza dell’inquietudine culturale e anche artistica. Si, avevamo un po’ ribaltato la situazione e Popoli dei Teatri era un riferimento certo per i tanti spettatori che venivano a vedere gli spettacoli o partecipare alle attività parallele, come i seminari, le conferenze…, dai centri più grandi della regione. Un progetto che ha avuto sostegni e che aveva grandi margini di consolidamento. Ma anche un progetto che, di fatto, rimetteva in discussione, dalla sua piccola postazione di sguardo sulla teatralità, l’intero assetto istituzionale o para-istituzionale della nostra regione.

Nel teatro di Popoli in ristrutturazione, tra i calcinacci e le tavole, allestisti “Medea, una tragedia alla maniera attica” dello scrittore cubano  Montero. Drammateatro incomincia a misurarsi con il mito e propone una rilettura originale della figura di Medea. Più tardi, in differenti contesti, affronterai “Prometeo Incatenato”, l’Antigone di Sofocle di Brecht, “Orestiade” nella traduzione di Pasolini. La proposta dei classici, da parte dei grandi registi, penso ad esempio all’Antigone del Living, ha sempre a che fare con la ricerca di valori archetipici, lezioni esemplari, dell’esperienza umana. Che valori hai tratto da questo viaggio nella tragedia classica?

Tutti quei valori che ti nutrono nel profondo, che ti confermano l’idea di una sostanziale centralità del teatro come esperienza politica, di umanità, di socialità alta. “Medea”, nel teatro che era un cantiere, in quel momento abbandonato, fermo per ragioni, diciamo, burocratiche, continua ad essere per me una delle esperienze attraverso le quali si afferma l’energia, l’ostinata energia che ricompone in un urlo tragico la metafora del diritto al teatro e alla cultura. Ricordo che venne RAI1 per un servizio in diretta sulla nostra “Medea” nel teatro che era un cantiere fermo. Ricordo anche la bella esperienza di collaborazione creativa con il TAM di Padova. Poi venne la “Trilogia del Mondo Antico” realizzata in coproduzione con il Teatro Stabile dell’Aquila, un lungo viaggio nel Sacro, se vuoi, denso di significati, un’esperienza di incontro con i grandi archetipi: Prometeo, Antigone, Oreste. Alla fine ti porti dentro, nel profondo della tua vita, l’impatto con la sostanza stessa del perturbante, che è quanto queste figure esprimono in senso forte, politico. Incontri che ti segnano, che rafforzano la consapevolezza del tuo essere un corpo/teatro. Anche in termini di solitudine.

Parli di solitudine. Puoi approfondire questo concetto?

In fondo è molto semplice: rifiutare l’omologazione, rifiutare l’idea stessa di un teatro inefficace, rifiutare l’autoreferenzialità sono elementi sostanziali di un comportamento e di scelte che ti allontanano da un mondo del teatro omologato, spesso privo di vitalità. Altrettanto spesso è quel mondo che vede in te un nemico da confinare ai margini di un territorio controllato dal piccolo cabotaggio politico, dalla mediocrità di poteri miserevoli. La stessa generosità del costruire esperienze altre determina solitudine, perché le “esperienze altre” sovente sono interpretate non già come una estensione delle possibilità, come arricchimento, come pluralità necessaria alla vita stessa del teatro. Sono invece rifiutate ed osteggiate, subdolamente combattute, emarginate. Questo è un problema del teatro, almeno lo è stato fino a quando, esauritasi la spinta di rinnovamento esercitata dal teatro dei gruppi, si è come riprecipitati o nell’oblio dell’omologazione o in un deserto parallelo dove intuisco un forte vuoto di artisticità che spesso è determinata da un deficit di memoria. Se parli con dei giovani che oggi fanno o vogliono fare teatro, che frequentano scuole e scuolette di teatro (pullulano!), ti accorgi che manca loro non solo autopedagogia e rigore ma anche una precisa consapevolezza, un senso della storia del teatro più recente, più efficacemente capace di determinare alterità ed esperienza, sensibilità differenti, pluralità. Così, nella desertificazione della memoria (figuriamoci, oggi avviene anche per la Shoah), per te che quantomeno l’hai sfiorata non resta che rifugiarti in un’inquieta solitudine e assistere ad un ritorno del teatro vecchio, all’occupazione degli spazi  da parte degli amateurs o peggio dei tanti personaggi mediocri che si aggirano nei territori del “tutto è performance”! Poi, naturalmente, c’è un’altra solitudine, quella intima e nascosta, la tua personale, dove vivono pulsioni dalle quali continua a generarsi una necessità di realizzazione scenica, ma questa è già un’altra faccenda, più complessa, diversa, anche dolorosa.

Che cosa orienta le scelte drammaturgiche?

Io seguo le mie necessità, la mia inquietudine, il mio livello di consapevolezza della storia che spesso incontra un materiale letterario nel quale posso immergermi alla ricerca di nuclei di senso, tematici e poetici, con i quali costruisco il mio reticolo drammaturgico. Che è fatto di una sottile linea narrativa intorno alla quale creo salti, rimandi, associazioni, alla ricerca di una messa in forma del materiale che, al filtro della sensibilità degli attori e dello sguardo sulla costruzione dell’attenzione degli spettatori, sia o possa essere efficace. A volte le scelte di realizzare uno spettacolo sono pensate, elaborate nel tempo, altre volte sono colpi di fulmine che elettrizzano l’immaginazione. Al centro di queste scelte ci sono gli attori, e io amo scrivere in scena con i loro corpi/voce , che diventano il materiale drammaturgico per eccellenza, il nucleo di energia capace di inventare relazioni forti.

Il rapporto con i luoghi. Molti dei tuoi lavori sono nati in spazi inconvenzionali, comunque pregni delle tracce di una loro storia, di un’anima, come l’ex mattatoio di Pescara, dove allestiste “Cannibali”.

Fu un’intuizione di Germano Scurti che mi invitò a Pescara per realizzare uno spettacolo in occasione della Shoah. Eravamo alla ricerca di uno spazio e gli dissi che “I Cannibali” di Tabori era un testo incentrato su un fatto di cannibalismo ad Auschwitz e lui, per una strana quanto bella intuizione, indico l’ex Mattatoio di Pescara. Era abbandonato, porta e finestre divelte, ma puzzava ancora di sangue raggrumato e c’erano ancora i ganci sui quali appendevano gli animali squartati e sanguinolenti. Uno spazio, quello, che anche da un punto di vista architettonico rimandava al padiglione di un campo di sterminio nazista. Fu uno dei migliori esempi di come uno spazio con una sua specificità possa coerentemente interagire con la scrittura drammaturgica. In quei casi, ciò che è importante è proprio la capacità di cogliere i segni di coerenza, formale e sostanziale, anche per vivo contrasto. Ogni spazio ha questa capacità, di produrre segni evocativi, ma bisogna coglierne il respiro e saperlo liberare all’interno del dispositivo di creazione scenica. Così ha la possibilità di riscoprirsi un luogo, di lavoro creativo e di esperienza percettiva. Si, a pensarci bene, molti spettacoli del Drammateatro sono stati realizzati in altri luoghi reinventati alla teatralità, perché ciascuno di essi, che fosse il padiglione di una fabbrica abbandonata o un luogo naturale o, appunto, un ex mattatoio, diventava per me una casa del teatro, la mia casa e quella degli attori, una dimora teatrale dove non si facevano solo prove ma addirittura, in alcune occasioni, ci si viveva di tempi ulteriori, ci si dormiva e mangiava anche!

Con “Musineri”  inizi un percorso nella memoria di eventi drammatici che abbiano segnato la nostra storia. Un percorso proseguito con azioni sceniche di testimonianza della Shoa, che continua a rappresentare un impegno irrinunciabile per Drammateatro anche oggi.

I greci hanno indicato la strada e noi si continua a seguirla, nel senso che probabilmente non c’è teatro senza un confronto serrato con la Storia, con l’Accadimento, con quanto segna nel profondo la nostra consapevolezza, la consapevolezza della Storia. Poi, possiamo reagire in modi differenti, ideare e creare riverberi di carattere artistico, più intimamente biografici o più spudoratamente politici, ma il motore della necessità creativa è la consapevolezza della Storia, io penso. Auschwitz è il ‘900, è l’orrore dal quale non si può prescindere, la sintesi orribilmente “perfetta” della Tragedia, dolorosamente perfetta…Se non siamo capaci di ribadire cosa è stato per noi il ‘900, perdiamo l’orientamento della strada indicata dai greci. Smarriamo la strada del nostro essere e del nostro consequenziale agire con il teatro. Per questo la Shoah continua ad essere un riferimento che incide profondamente sulla nostra consapevolezza, l’energia in ragione della quale possiamo agire in teatro, con il teatro, cercando la sua efficacia.

Artaud, Molière, Pirandello. Hai dichiarato di aver individuato in questi uomini di teatro un sentimento e un impegno di militanza artistica. Quali sono i lasciti che ne hai condiviso sulla scena?

In “Pour en finir…”, spettacolo con il quale abbiamo aperto il nostro nuovo secolo, Artaud mi ha fatto capire quanto necessaria sia l’estensione delle possibilità, sia in senso marcatamente teatrale, al di là dei luoghi comuni con i quali sovente si usa disegnare la grande visionarietà di Artaud, sia nel senso di una passione che può sconvolgere la propria esistenza. Molière è stato un incontro per così dire accidentale, al filtro formidabile operato da Bulgakov con la biografia immaginaria che abbiamo utilizzato per portare in scena il tema della censura agli artisti, e qui ricordo con molta emozione l’incontro con Luigi Squarzina ai tempi del nostro “Molièremachine”. Per quanto concerne Pirandello, “I Giganti della montagna” se è, come è, il suo testamento teatrale, ebbene lo è in chiave politica, nel senso della grande metafora dell’arte, della vita degli artisti succube dell’ignoranza, di questo “Dio molto speciale” (l’ignoranza dico) che si arroga il diritto di decidere della vita o della morte dell’arte, e cioè degli artisti.

Esiste uno spettatore ideale per il tuo teatro?

Ci sono naturalmente gli spettatori che conoscono il tipo di lavoro che cerco di fare, che seguono i miei spettacoli e che spesso vengono a vederli anche da località distanti. A loro si aggiungono gli spettatori nuovi, occasionali, diversamente motivati e con i quali si instaurano dei rapporti nuovi, spesso imprevedibili. Ad essere sincero, non mi sono mai posto il problema dello spettatore ideale, ma se ci penso devo dirti che tutti gli spettatori lo sono: se pensassi il contrario priverei ciascuno di loro della prerogativa, ognuno a suo modo, di essere protagonista del mio spettacolo, di vivere con gli attori l’esperienza entusiasmante dello spettacolo teatrale.

A partire dal trentennale del Drammateatro, mi pare di ravvisare un interesse verso una ricomposizione della memoria storica del teatro. E’ così?

Non saprei, forse si.  Sai, mentre lavori e tenti di difendere il tuo agire non ti curi di ciò che sono o che saranno gli effetti dei tuoi atti di scena, e neanche di quanto intorno a questi tenti di edificare, in termini di confronto sul terreno della cultura teatrale. Vive così forte la necessità di coltivare il terreno della cultura teatrale, che poi sono le azioni che dissodano e che forse danno frutti, che non ti curi di ricomporre la memoria storica. Ti curi invece, perchè rimbomba il campanello d’allarme, di riaffermare dei principi sui quali hai costruito il tuo percorso, la tua biografia. Lo fai perchè quei principi li vedi lentamente dissolversi, frantumati dal martello di ciò che possiamo definire lo spirito del tempo. Ed è sulla linea di confine con l’inaccettabile, con il disorientamento, che tenti di riposizionare la tua bussola, per ristabilire l’azimuth del tuo orientamento fondamentale. Grotowsky diceva “Quando non sai più dove andare allora torna alle tue origini”, e nel mio piccolo forse, più o meno lucidamente, è quanto ho bisogno di fare, oggi.

Allo stesso tempo recentemente dimostri una sensibilità più accentuata per la formazione degli attori e per la trasmissione di una eredità ai giovani.

L’eredità ha un peso e se la vuoi vivere, per scelta intellettuale o per impulsi del mestiere o per entrambe le possibilità, allora devi caricartela addosso, portarla con te anche quando la tradisci, fermo restando il fatto che il “tradimento” è di per se una precisa assunzione di responsabilità nei riguardi della tua eredità personale. Tutto questo può accadere, è accaduto, quando ciò che definiamo eredità è strettamente connessa, ne è la conseguenza più prossima, alla possibilità di aver toccato con mano, elaborato e trasformato, bruciandoti anche, l’insegnamento dei Maestri. Oggi mi sembra prevalga da una parte una sorta di ritorno negli ovili esclusivi dell’accademismo istituzionale o pseudo tale, dall’altra un’altrettanto pericolosa approssimazione nei percorsi di formazione attoriale, con una accentuazione della autoreferenzialità davvero stucchevole.

Per concludere, una domanda che le riassume tutte. Qual è il senso di continuare a fare teatro?

Mettiamola così: credo che gran parte di quel senso cui ti riferisci risieda nelle tue domande, la piccola parte restante nelle mie risposte, forse!

 

 

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