“Perché siamo fili e non dati”. Marco Paolini a Giulianova con “Antenati, the grave party”

Il festival “Approdo”, proposto a Giulianova dall’Associazione “Ark’arte”, con la direzione artistica di Loredana Iannucci, tra i molti elementi di interesse culturale offerti gratuitamente alla comunità, il 17 giugno ha riportato in Abruzzo Marco Paolini con la sua nuova produzione “Antenati, the grave party”; una “operazione civile”, come l’attore definisce i suoi racconti scenici, orientati, cioè, a far scaturire un senso, una lezione per la contemporaneità da storie ed eventi del passato capaci di interrogare il nostro presente. Consiste, infatti, di “un mettere l’accento sulla comunicazione”, come ebbe a dirci in occasione della presentazione del Racconto del Vajont, molti anni fa, all’Aquila, la funzione civile della forma teatrale di cui Paolini è interprete d’eccezione, abile nel montare storie e nel porgerle. Compagno di viaggio, in questo nuovo lavoro, è Charles Darwin e il suo libro “L’origine delle specie” che l’attore, nell’incipit sul palco, dichiara di aver letto nel lungo periodo di isolamento e di allontanamento dalle scene imposti dal Covid.

Marco Paolini con la direttrice artistica del festival Loredana Iannucci

Nella genesi dello spettacolo si sommano il disorientamento causato dalla pandemia, il dolore e l’impressione delle morti e dei camion carichi di bare e il pensiero della sepoltura: qualcosa di istintivo, riflette, per gli uomini e anche per alcune specie animali. Paolini svela la sua biografia, racconta di aver avvertito allora l’urgenza di cercare le tombe di famiglia, dei nonni in particolare, quasi del tutto sconosciuti, provando a tracciare una genealogia fatta di gente normale, priva di un carattere o una storia particolare, e di qui andare a ritroso nel tempo, immaginando precedenti esistenze e identità, generazioni di “nonni” che si perdono, a migliaia, nella notte dei tempi, fino alle origini della vita sulla terra.

La teoria evoluzionistica nutre il racconto dell’epopea umana come un viaggio di continuo adattamento. Come mai – si chiede l’attore – l’Homo sapiens ebbe la meglio sui coevi cugini Neanderthal e non solo loro, rimanendo l’unico protagonista dell’evoluzione umana? Cosa avevano di speciale i Sapiens? L’immaginazione a teatro consente di riempire le zone oscure della storia e della scienza e di risolverle con l’ironia. Furono i “millennials”, i giovani, i piccoli che, a un certo punto, incominciarono a collegare forme, a costruire sistemi di segni, a realizzare graffiti e pitture rupestri, a inventare un linguaggio. Sopravvissero, dunque, grazie a un mix di intelligenza e istinto e all’amigdala, la piccola ghiandola cerebrale che permette di immagazzinare la memoria della paura e di far tesoro delle esperienze negative.

La saga dei nostri antenati è puntellata dalle migrazioni. Le rotte migratorie – avverte l’attore – sono le stesse da millenni; è storia che i nostri progenitori avessero la pelle nera e arrivassero dal continente africano prima di colonizzare l’intero globo e che nel genoma umano sussistano in codice le tracce di quella formidabile avventura di conquista ed espansione, tracce che sono come dei fili che a tutt’oggi ci legano ai nostri progenitori.

Erano, quegli uomini, dei funamboli e la creatività permise loro di resistere a una natura estrema mentre la capacità di comunicare consentiva le prime forme di vita comunitaria. Un’attitudine funambolica, questa, quanto mai richiesta all’uomo contemporaneo, qualcosa che più di ogni altro, del resto, può svelarci l’attore, abituato a governare la scena e l’attenzione, a inventare forme di comunicazione per arrivare al cuore e alla testa delle persone.

Paolini narra con levità mentre segue il filo del suo progetto, tra le apparenti divagazioni, inserendo nel racconto l’ironia e l’umore che aprono al sorriso e all’applauso. Ci conduce nella dimensione onirica di un immenso convito, in una radura di un tempo mitico, dove si raccoglie un’inconcepibile moltitudine di nonni, in gran parte dalla pelle nera, che ci somigliano nelle attitudini e la cui esperienza potrebbe esserci di aiuto nella giungla del cambiamento climatico, delle pandemie, di una terra violentata dall’incuria e dal profitto. Uno, in particolare, si stacca dal gruppo e dialoga con il nipote: porta il nome del progenitore biblico Adamo e, prima di morire, dischiude una visione concreta ed essenziale della mancata felicità dell’uomo contemporaneo, questi, sì, autocondannatosi precocemente ad un sepolcro personale e collettivo.

Photo Gianluca Moretto, sito web Jole Film

Sul finale, nella scena dominata dalla parola e da una competenza affabulatoria che non ha bisogno d’altro per tenere in pugno lo spettatore per oltre un’ora e mezza, si deposita l’emozione di un raro movimento, quando, sollevando sulla schiena uno sgabello (tra i pochi oggetti presenti nella scena nuda), l’attore evoca il gesto che restituisce la lezione civile dello spettacolo: quel caricarsi sulle spalle il corpo del morto, che equivale ad assumerne presenza ed eredità. Poiché, di nuovo, non siamo soli, ma fili, intimamente legati a coloro che ci hanno preceduti nel sorprendente quanto difficile viaggio della vita e che verranno dopo di noi: “non siamo dati – ripete – ma fili!”

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