Memorie. Theatre for the New City, un teatro per l’ecologia (1993)

Presento qui un articolo inedito, risalente al 1993 e inizialmente destinato alla rivista “Linea d’Ombra”. Rileggendolo, con il segno di poi, mi è parso ancora valido ed illuminante di quella fase del teatro americano che da tempo mostrava un deciso interesse per la questione ecologica, in verità ancora oggi poco frequentata dal teatro italiano. Nell’articolo compare il cammeo di una mia intervista a George Bartenieff, il fondatore del Theatre for the New City e uno dei padri della scena ecologica Usa, protagonista di fertili collaborazioni con il Living Theatre di Julian Beck, che affiancò in “That Time”, la Trilogia di Beckett al La Mama, e di Judith Malina, che lo diresse in“The Brig” di Kenneth Brown, oltre che con altri protagonisti del nuovo teatro americano.

Una scena di “Waste” del Living Theatre, ph. Arti al Vivo

La questione ambientale assume caratteri di necessità e di emergenza per molti teatri dell’”Off-Off Broadway” newyorkese. Negli anni ’91-92 il Living Theatre ha rappresentato uno spettacolo di strada dal titolo “Waste” (letteralmente “spreco”,  “spazzatura”)[1], affrontando e traducendo il problema dell’inquinamento nei suoi vari aspetti in altrettante forme teatrali e, come sempre, da qualche tempo, con grande senso di humour ed ironia. “Waste” aveva debuttato significativamente, nel giugno 1991, in un centro di riciclaggio, per essere, poi, replicato decine di volte nelle aree più incolte e abbandonate, “sprecate” appunto, della città. Allora il progetto si era pure arricchito di un “Waste laboratory” e il teatro sulla Terza Strada era divenuto un grande environment di materiali di riuso dove decine di artisti indipendenti avevano rappresentato sogni, deliri, preoccupazioni e insoddisfazioni intorno al tema della relazione uomo – ambiente.

Nell’estate 1992 il Theatre for the New City, o TNC come è conosciuto, diretto da George Bartenieff e Crystal Field, uno dei principali e più organici complessi dell’”Off-off Broadway”, dava avvio a quella che nelle aspirazioni, e nei fatti, oggi, doveva divenire una tradizione e un grande catalizzatore di energie artistiche: l’Eco Festival, vale a dire due settimane di spettacoli, performance, eventi ed azioni sul tema dell’ecologia. Un programma ricchissimo, contraddistinto dalla rinuncia alla facile retorica e, come spesso accade nei gruppi di un certo impegno a New York, da un senso di affascinante naïveté ed ironia.

La prima edizione del festival prevedeva una conclusione paradossale: la “piantagione” di una vecchia automobile in una delle tante aree inutilizzate della zona. La zona in questione è il Lower East Side, o “Loisada” come nel gergo portoricano[2], che a quel tempo viveva un clima di sommossa e scontri, anche violenti, tra gruppi di dimostranti e polizia, erano all’ordine del giorno. All’origine dei disordini era la chiusura di un parco, Tompkins Square Park, punto di riferimento e di ritrovo per giovani, artisti e, non ultimi, i senzatetto, così numerosi in questa parte della città.

La chiusura del parco veniva interpretata come l’ennesima concessione alla crescente borghesia dell’East Side che aveva di fatto sollecitato un’azione di pulizia del sito. Ma il motivo del malcontento era anche squisitamente umano e sociale, perché l’intervento era stato piuttosto violento: un giorno le ruspe avevano fatto la loro comparsa, divelto antiche strutture in muratura e sradicato alberi, gli homeless erano stati brutalmente cacciati dal parco, che veniva conseguentemente chiuso, mentre un cordone di poliziotti armati lo sorvegliava giorno e notte, continuando a farlo per tutto il tempo che la ristrutturazione ha richiesto. Oggi il Parco è stato restituito alla comunità, ma la memoria di quanto accadde allora è ancora molto viva.

“Uscendo da teatro – racconta Bartenieff – il corteo di attori e spettatori si trovò a percorrere una strada sbagliata e finì col trovarsi di fronte una squadra di poliziotti anti-sommossa. Ci fu del fracasso e l’automobile fu confiscata (…) Volevo concludere il festival con una sorta di rappresentazione estrema del senso. Un oggetto usato, ovvio, diventava qualcosa di paradossalmente ecologico, come un albero”[3].

L’attitudine a reagire alla negatività con il gioco appartiene alla cultura newyorkese, dove in certe aree chiamate “garden”, cioè giardini ma in realtà pubbliche discariche , si innalzano costruzioni gigantesche come totem, prodotte pezzo dopo pezzo dalla gente comune, ogni qualvolta abbia un oggetto ormai inservibile di cui disfarsi.

Locandina Eco festival

La seconda edizione dell’Eco Festival è stata più tranquilla e si è aperta con la piantagione di un vero albero nel parco di Tompkins Square, evento che è stato accompagnato dal cantastorie Mohwak Jake Swamp. Gli indiani hanno pure partecipato con spettacoli quotidiani della Thunderbird American Indian Dancers Company. “Formano una comunità relativamente grande qui a New York anche se non hanno alcun canale culturale[4]”, spiega Bartenieff, mentre annuncia che a partire da quest’anno il festival avrà il patrocinio della America Indian Community House.

Al festival hanno partecipato anche il Bread and Puppet Theatre con lo spettacolo “The Convention of Gods”, basato sul testo “Les Assis” di Rimbaud e il Living Theatre con “Rules of Civility”, lo spettacolo scritto da Hanon Reznikov sulla base del trattatello del presidente George Washington sulle norme da osservare in società.

Quindici giorni pieni di attività, incontri, eventi fuori e dentro il teatro, non ultimo un mercatino di cibi organici e di prodotti artigianali. Per il futuro i direttori del TNC hanno costituito un consorzio con altri gruppi del Paese che organizzeranno altrettanti Eco Festival nelle rispettive aree di intervento, “Perché – spiega ancora Bartenieff – “E’ tempo che l’attenzione per la relazione arte – ecologia si focalizzi intorno a un evento centrale, capace di creare attenzione a livello macroscopico e di attivare grandi energie. Dopotutto se è di attenzione per la vita che parliamo, allora l’ecologia comprende davvero tutto[5]”.

Una positiva eccezione

Nel clima generalizzato di crisi logistica ed economica che attraversa il teatro “Off – Off Broadway”, il TNC rappresenta una confortante anomalia. Situato nel Lower East Side, al numero 155 della Prima Avenue, tra la Nona e Decima Strada, usufruisce di una bella struttura e di ampie possibilità spaziali. Quello che stupisce è la continuità del lavoro e la capacità di offrire sempre qualcosa da vedere.

Il TNC nasce nel 1970 su iniziativa di George Bartenieff e Crystal Field (suoi attuali direttori), Teo Barnes e Lawrence Cornfeld. Si sono incontrati, come vedremo, alla Judson Memorial Church e da questa dimensione comprensibilmente ispiratrice sono usciti con un grande desiderio di far teatro, seppure con idee ancora vaghe sul come farlo. Prendono quasi per caso la strada del teatro di strada  e lavorano in principio in diversi spazi, compreso il prestigioso Public Theatre di Joseph Papp. Nel 1976 entrano in possesso di un ex Public Market Building e ne iniziano la ristrutturazione. Oggi hanno portato a termine quella che chiamano la “Fase 1” dei lavori, che ha portato alla realizzazione di due sale teatrali, rispettivamente di duecentoquaranta e novantanove posti a sedere, ed il ripristino dei sistemi di sicurezza, di ventilazione e di riscaldamento; elementi, questi, solo apparentemente secondari per la buona salute di un teatro, in quanto il Fire and Building Department è impietoso, come dimostra l’ennesima chiusura imposta al Living Theatre[6], che ora prova i suoi spettacoli proprio qui, in uno degli spazi sotterranei.

La “fase 2” è stata appena avviata e prevede la creazione di uno spazio danza e video, di un caffè cabaret, di una galleria d’arte e, non ultimo, il rifacimento della facciata esterna del teatro, che sarà curato dall’architetto James Wine di SITE.

La ricerca di una situazione di multimedialità risponde ad esigenze di strategia culturale: il TNC, infatti, lavora solo in parte alla produzione di spettacoli propri, i quali, poi, sono quasi sempre destinati alla strada, e la grande mole delle attività del teatro consiste nell’organizzazione di eventi, workshop per la formazione degli attori, produzione,  distribuzione ed ospitalità di spettacoli di compagnie ed autori esterni. E’ così che dal 1976 ad oggi ha prodotto e presentato più di ottocento lavori. Di San Shepard, Miguel Pinero, Jean Claude Van Itallie, Living Theatre, Bread and Puppet Theatre, Onthological Histeric Theatre di Richard Foreman, Philip Glass  e molti altri, aggiudicandosi un gran numero di prestigiosi riconoscimenti: un premio Pulitzer, trentasei Obie Awards, sei Rockefeller Playwriting Awards, cinque premi Ascap e il Manhattan Borough President’s Award for Cultural Services and Exellence in Theatre.

George Bartenieff. Ph Arti al Vivo

Intervista a George Bartenieff

G.F. – Come è nato il Theatre for the New City?

G.B. – L’idea fu mia, in un certo senso, ma fummo in quattro a crearlo: Teo Barnes, Lawrence Cornfeld, Crystal Field ed io. Era il 1970. Avevamo lavorato insieme alla Judson Memorial Church. Non so se ti è nota la sua storia, si trattava di una situazione unica, forse irripetibile. C’erano Rauschemberg e Oldenburg, c’era Allen Ginsberg e si lavorava in un clima fantastico di creatività, collaborazione e contaminazione tra le diverse forme d’arte, per cui succedeva al poeta di recitare, al danzatore di scrivere e all’attore di danzare, e così via. L’idea era di mantenere quel livello e quella qualità del lavoro, di creare un  teatro in cui riuscire a combinare danza e testo, gesto e parola. Insomma, sul finire degli anni Sessanta, dopo tanta ispirazione, tra i tanti che sentirono l’esigenza di formulare le proprie visioni artistiche, c’eravamo anche noi.

G.F. – Quale fu la strategia degli inizi?

G.B. – Devo dire che all’inizio la strategia non era affatto chiara. Avevamo dei background diversificati. Io, in particolare, avevo  una formazione teatrale classica e già mi preparavo a passare tutta la vita recitando in compagnie di repertorio. Solo che l’esperienza alla Judson mi aveva ormai segnato. Volevo lavorare a qualcosa di mio, e così anche gli altri. Qualcosa di importante, che rispondesse alle nostre esigenze ma anche alle esigenze del pubblico, che fosse politica, impegno e divertimento. Dei quattro direi che io e Crystal eravamo quelli più con i piedi per terra. Per esempio credevamo molto nel teatro di strada che avevamo incominciato a fare quasi per caso qualche anno prima.

G.F. – Come accadde?

G.B. – Ci fu nel ’67 a New York una grande marcia la pace, preceduta da un appello agli artisti a dimostrare contro la guerra in Vietnam. Fu un raccogliersi spontaneo di migliaia di persone da tutta la East Coast, Boston, Filadelfia e New York, principalmente. Qualcuno ci diede dei frammenti, dei brevi testi poetici e ci disse: “Perché non andate avanti e non ne fate uno spettacolo di strada?”. “Uno spettacolo di strada? Ma noi non sappiamo come fare uno spettacolo di strada!”. “Suvvia – rispose – fate qualcosa nel parco!”.

Così prendemmo quei materiali e ne facemmo dei pezzi di clownerie, una serie di brevi scketches di contenuto politico ma molto comici. Questa accadeva a Central Park, dove la grande parata si concludeva, e nel parco c’era  anche il Bread and Puppet Theatre e il nostro spettacolo piacque molto a Schumann[7]. Pur senza avere mai visto il loro teatro avevamo creato qualcosa di simile. Direi che quella semplice avventura, affrontata senza alcun supporto critico e, in fondo, senza alcuna aspettativa per il futuro, agì su di noi come un  catalizzatore, per cui decidemmo che quella  era la dimensione teatrale che avremmo sviluppato. Quando poi incominciammo a girare come TNC, scrivemmo uno spettacolo in cui la scena veniva distrutta ogni sera dall’entrata in scena di un’automobile, una vera auto! Avevamo inventato una scenografia che, con qualche ingegnoso accorgimento, poteva essere distrutta e immediatamente ricomposta. Con questo progetto ci recammo da Joseph Papp, che ci dette immediatamente l’appoggio del suo teatro, anche se, ovviamente, lo spettacolo si svolgeva all’aperto. Quella fu anche la nostra prima tournée perché replicammo lo spettacolo decine di volte nel Greenwich Village.

G.F. – Perché non esiste a New York un altro complesso teatrale analogo al vostro, eccezion fatta per il La Mama?

G. B. – Il teatro, in questo paese, ha sempre avuto problemi perché non ha radici e non ha una tradizione, come in Europa. E’ sempre stato una sorta di figliastro, qualcosa di sempre accessorio, di secondario, eccezion fatta per gli anni Trenta e per i Sessanta, quando ha avuto un significato sociale. Il teatro non può esistere nel vuoto. Non puoi semplicemente costruire il Lincoln Center e dire: “Questo è un teatro”. Sarebbe teatro se ci fosse un’istituzione, prima. Devi costruire un teatro per una ragione e quando il teatro nasce spontaneamente succede perché c’è nella società un bisogno di teatro. Tuttavia la visione di chi è convinto di questo bisogno e del fatto che il teatro debba relazionarsi con il resto della società, costituisce ancora una divergenza. Gente come Judith Malina e pochi altri che hanno questa grande fede nel teatro resistono, pur consapevoli delle difficoltà. La nostra buona sorte è stata di ottenere questo spazio, ma a costo di quali sacrifici la manteniamo! Sempre, in qualche modo, ballando sui trampoli. Non so come, ma resistiamo. Affittiamo i nostri spazi, soprattutto, ad altre compagnie, teniamo o ospitiamo workshop per attori e programmi educativi per teenager. Poi, a parte gli spettacoli di strada, che sono gratuiti, qui in teatro ci sono dei biglietti (di cinque, dieci dollari, N.d.R.). Per l’Eco festival abbiamo delle sovvenzioni e alcuni sponsor. Insomma il problema della sopravvivenza delle strutture artistiche non smetterà di porsi se non cambieranno le condizioni fuori, l’atmosfera sociale è un catalizzatore importante per le arti, specialmente per il teatro.

G.F. – Mi puoi chiarire il legame tra teatro ed ecologia?

G.B. – Vedi, gli antichi avevano un forte senso della natura, sapevano che il loro benessere e il loro essere in vita erano legati alla qualità della loro relazione con la natura. E avevano il rituale, in cui i partecipanti erano attori e in cui tutti, anche gli spettatori, non restavano passivi. C’era questa forma di partecipazione collettiva ai misteri della natura, di sentirsi parte di essa. Noi non possediamo più questo sentimento, perciò agonizziamo, quasi avessimo saltato una fase darwiniana di evoluzione. I newyorkesi, in particolare, hanno dovuto sempre rapportarsi con l’ambiente in maniera indiretta. Ne siamo stati tagliati fuori semplicemente in virtù del fatto che bisognava costruire città a scopo di commercio. Ma ora, puoi vederne i segnali ovunque, la gente sente in maniera drammatica il bisogno di supplire a quella perdita, il bisogno di ricreare quella connessione originaria. Il teatro può diventare un canale per queste istanze e l’Eco Festival è di fatto una situazione di incontro e di festa, in cui mettiamo tutta la nostra energia perché siamo convinti che l’ecologia sia uno dei possibili ambiti di mobilitazione civica.

G.F. – Tu hai preso parte a “The Brig” del Living Theatre, nel 1963. Nel 1985, poco prima della sua scomparsa,  hai recitato con Julian Beck nella Trilogia di Beckett “That Time” al La Mama[8], nel 1988 tu e Crystal siete stati diretti da Judith Malina nello spettacolo “Us” di Karen Malpede.

G.B. – La collaborazione con il Living è molto importante per me, e vorrei certamente farlo più spesso, ma dipende sempre dal momento. Come ho fatto, del resto, con il Bread and Puppet, con cui ho fatto anche delle tournée, e con Mabou Mines. Queste sono le compagnie che hanno la visione più potente del teatro, di quello che può e deve essere e fare. Per quanto riguarda il Living, per anni tentati di entrare a farne parte, ma loro non avevamo mai un ruolo adatto a me. Feci anche delle audizioni. Finalmente, quando Joseph Chaikin lasciò la compagnia, l’opportunità si presentava. Ma ecco che Julian mi dice”Non facciamo più questo tale testo, facciamo The Brig”. Di nuovo la parte non mi si confaceva. Ma appena lessi il testo di Brown pensai “Voglio farlo” e lo dissi a loro e così lo feci. Abbiamo molto in comune, come tu stessa dici, anche il fatto di essere ebrei, anche se questo non è certo discriminante, almeno in apparenza, nel lavoro che faccio. Infine, con Judith, eravamo insieme al Dramatic Workshop. Lei in realtà era nella classe di Piscator, io in quella di sua moglie Maria Ley, però succedeva spesso di recitare insieme, perché quando Madame faceva il cast per uno spettacolo sceglieva anche attori delle classi superiori.

G.F. – Ho partecipato, lo scorso aprile, nella tua casa di Brooklyn, al Passover Seder officiato da Judith Malina. L’eredità ebraica ha avuto qualche influenza sul tuo teatro?

G.B. – Una grande influenza, credo, anche se questa non è una cosa di cui si è  solitamente consapevoli. Forse è più evidente nel mio modo di recitare.

G.F. – Qual è la tua visione del teatro di sperimentazione, in questo momento, a New York?

G.B. – Credo onestamente che le novità oggi non siamo tanto nel teatro quanto nella performance art, che ha fatto registrare uno sviluppo maggiore negli ultimi dieci anni. Anche se personalmente continuo a preferire il teatro, l’idea di una compagnia di persone che lavorano insieme,  devo riconoscere che la direzione che sta prendendo la performance art è molto più interessante, perché ci fa intravedere un futuro in cui ciascuno diventa artista nel suo proprio modo, che è modo di provare a valorizzare la capacità dell’arte di riconnetterci individualmente con qualcosa che abbiamo perduto. Per questo insisto sull’ecologia, perché sono convinto che sarà il prossimo grande passo per l’arte e non solo.

Grazia Felli

 

[1] Testo di Hanon Reznikov in dieci scene ispirate a dieci diversi testi e altrettanti stili.

[2] “Loisada” è il nome che il poeta e drammaturgo Bimbo Rivas ha dato al “Lower East Side”, l’estrema parte sud-est di Manhattan, espressione della quale rappresenta l’esatta traduzione in Portoricano o “Neorican”.

[3] Audrey Farolino, The New York Post, 22 aprile 1993. Cit.

[4] Ibidem

[5] Ibidem

[6] Gennaio 1993

[7] Peter Schumann è il fondatore e direttore del Bread and Puppet Theatre, nato a New York nel 1962 che ha posto la sua base operativa  in una ex fabbrica di Glover, nel Vermont.

[8] Vi prese parte, oltre a Beck e Bartenieff, anche Fred Neumann, membro già dal 1971 del Mabou Mines Theatre e suo attuale direttore.

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