Teatro come necessità e giubilo. Intervista a Horacio Czertok, atteso al festival “Il teatro della Città”.

Horacio Czertok in “Contra gigantes”, ph. A. Gaibiso Pompei

Dal 18 al 20 dicembre il fondatore del Teatro Nucleo sarà a Popoli (PE), ospite del festival “Il Teatro della Città”, organizzato per il secondo anno da Drammateatro, per uno stage di tre giornate riservato a dodici attori. Il 19 dicembre, alle 21, al Teatro Comunale, il maestro di origine argentine sarà interprete dello spettacolo “Contra Gigantes”, evoluzione del precedente spettacolo del Nucleo, “Quijote”, dedicato al protagonista del testo di Cervantes nella sua contemporaneità. In vista del suo ritorno in Abruzzo, Horacio Czertok ha accettato di rispondere alle domande di “Arti al Vivo”.

 

Maestro, Lei torna in Abruzzo dopo vent’anni. Alcuni ricordano con emozione la presenza del Teatro Nucleo a “Ombelicus Mundi” al fianco di Drammateatro e, ancora, al festival di Montone, con “Quijote” e “Francesco”. Tra qualche giorno, a Popoli,  avremo l’occasione di partecipare di  “Contra gigantes”, che di Quijote è una prosecuzione. Come è cambiato il protagonista in questi anni e che cosa viene a dirci?

In questi anni ci siamo sviluppati, Nucleo e Drammateatro, seguendo percorsi propri ma con un’etica comune. “Ombelicus mundi” fu un momento straordinario, un’intuizione che precorreva i tempi; la creazione di una comunità internazionale centrata sull’apprendimento teatrale nella quale a fare da maestri erano gli attori medesimi. Claudio Di Scanno ne capì la potenza e mise in campo l’organizzazione;  ne risultò un incontro proficuo attraverso il quale riuscimmo a capire, nella pratica, molto di quanto avevamo fino ad allora solo immaginato.  Il lavoro che presenterò a Popoli è una continuazione della ricerca – infinita, questa- sul romanzo di Cervantes e sulla contemporaneità del personaggio centrale, sui “segnali tra le fiamme” [1] che il Sommo Mancego ci invia da quattro secoli. Nel frattempo Nucleo rimette in campo i suoi celebri spettacoli per gli spazi aperti già da quest’estate.

La sua ricerca sull’attore l’ha condotta a mettere a punto un “metodo” per la sua formazione, la cui matrice è Stanislavskij, che ha anche fissato in un volume[2]. Qual è il cuore di questo metodo? E come lavorerà con i dodici attori che parteciperanno allo stage di Popoli?

Si tende a pensare che il lavoro dell’attore negli spazi aperti sia poco più di quello di un saltimbanco, nonostante questo richieda perizia e competenze tutt’altro che banali. Il modello cui ci ispiriamo da sempre è la Commedia dell’arte: non quella di macchietta, né quella immaginata dagli accademici del teatro che la vogliono primitiva e volgare in senso peggiorativo. Sia Stanislavskij che i suoi allievi-sodali Mejerch’old e Vachtangov seppero capire la straordinaria sapienza teatrale che v’era nei Commedianti e provarono a carpirne i segreti. Il problema centrale è che il teatro europeo risulta centrato sulla parola: è un’appendice della letteratura, è letteratura con altri mezzi. Invece il teatro è altra cosa, ed è questo il segreto (di Pulcinella) della Commedia: un teatro incentrato sul linguaggio dell’attore prima e oltre la parola, sull’incontro e sul conflitto. Gli attori della Commedia si confrontavano stabilendo con grande precisione un canovaccio, il che permetteva loro di improvvisare con grande profondità e perizia, oltre la lingua. Goldoni “ucciderà” il canovaccio scrivendone le trame come commedie (dalla Commedia alle commedie) e obbligando gli attori a recitare in lingua. Stanislavskij apre la strada ad una nuova concezione del canovaccio, ovvero una trama che gli attori preparano con grande attenzione e profondità e che li abilita ad improvvisare.

Horacio Czertok in “Contra gigantes”, ph. D. Mantovani

Nella biografia del Teatro Nucleo esistono relazioni con Grotowski, Barba e l’Odin Teatret, con il Living Theatre. Che lasciti hanno trasmesso queste esperienze? E come si sono integrate, se ciò è avvenuto, nel suo metodo?

Grotowski ha portato la pratica di Stanislavskij nel nostro secolo, quando il teatro smette di essere centrale nella cultura e diventa poco più che passatempo o museo; ne intuisce il potenziale come veicolo di relazioni e per la ricerca personale, improntando la sua pratica sull’approfondimento della presenza scenica globale dell’attore. Barba implementa questa pratica attraverso una mistica di gruppo, come cellula del rinnovamento sociale nella quale si assorbono pratiche teatrali dell’umanità tutta, oltre le frontiere coloniali. Il Living ha distillato una pratica teatrale di gruppo sobria ed essenziale, agli antipodi di Broadway e del mito del successo, per adoperarla come strumento di pratica politica schietta, contro il consumerismo, contro la guerra. Queste istanze vivono tutte nella nostra pratica teatrale, spesso come aporie, mai come dogmi.

Analoga importanza la attribuisce alla formazione dello spettatore all’incontro con il teatro. Lei ha dichiarato che il Teatro Nucleo si è specializzato in creare vincoli con gli spettatori e che se questi non diventano partecipi il teatro non ha motivo di esistere.

Ho l’impressione, da sempre, ed è un’impressione corroborata dalla pratica, che lo spettatore-non-spettatore sia già formato e perfettamente in grado di interagire, di coinvolgersi, di fare parte del fatto teatrale.  Per noi il teatro è un incontro nel tempo presente tra personaggi e spettatori: è qui che si determina (o no) la comunicazione, meraviglioso verbo latino che vuole dire mettere in comune. Volutamente mi riferisco ad un non-spettatore: cioè a quelle persone, e sono la maggioranza, che l’arroganza e la supponenza di una classe ha lasciato fuori del gioco. A teatro si può andare solo nelle grandi città dove vi sono gli edifici preposti, e solo se si ha l’uso culturale e spesso anche i soldi. Eppure tutto il teatro è sostenuto dal Fondo Unico per lo Spettacolo del Ministero preposto. E quel Fondo è costituito con le tasse che tutti i cittadini pagano. Ovvero: tutti i cittadini pagano qualcosa che solamente pochi fruiscono.  Il non-spettatore diventa spettatore istantaneamente appena messo davanti ad uno spettacolo degno, ne percepisce le qualità e ne comprende la situazione. Portare il teatro laddove non c’è (piazze, strade, periferie abbandonate, quartieri dormitorio, carceri e concili di fabbrica ) è un azione di giustizia elementare ed è assai salutare per la pratica teatrale.

Teatro Nucleo, “Contra gigantes”, ph. A. Gaibiso Pompei

Teatro Nucleo opera stabilmente nelle carceri, negli istituti psichiatrici e nei luoghi dell’emergenza sociale. Si avverte una fede nel teatro come fattore di cambiamento, di rigenerazione delle comunità, la ricerca di un teatro totale e migliorativo. Sono questi i luoghi in cui il teatro può ancora giocare un ruolo culturalmente influente?

Poiché il teatro ha perso la centralità che ha sempre avuto dal secolo di Pericle ad oggi, soppiantato dai media, l’ha ritrovata o può ritrovarla nel centro della crisi sociale, dove, peraltro, ha sempre vissuto. Essa si trova ovunque e in nessun luogo. Nel teatro delle famiglie, della giustizia, della salute mentale: teatro si fa ovunque, in questo consiste la nostra civiltà, nella quale la sincerità profonda non ha spazio. Amministriamo la verità attraverso varie forme di ipocrisia. La parola greca per attore è appunto ipocrites. Più sei vicino a qualcuno, più ne sei intimo, più menti. L’ipocrisia produce vari disagi. Il teatro si può proporre come verità – poiché finzione, accettabile – per conoscere e fors’anche per dire la propria verità. E ciò risulta salutare. Mi fermerei qui, non è un toccasana: il disagio sociale si deve curare con politiche adeguate.

Il teatro dell’ultimo secolo ha vissuto straordinari momenti di cambiamento, illuminazioni ed entusiasmi fecondi, interagendo ed incarnando le attese culturali ed esistenziali di generazioni di spettatori. Come percepisce il teatro d’oggi e come ne intravede l’evoluzione, riuscirà a mantenere la sua necessità, la sua energia?

Infatti il teatro è esploso: in tanti modi è uscito o dovuto uscire dalla zona di conforto dei teatri della cultura per diventare una cultura di teatri. Più la civiltà si tecnologizza, più le persone avvertono la necessità della carne viva del teatro, nel suo essere qui ed ora. Il senso dell’umanità per il teatro si manifesta in ogni cultura, come le maschere, le danze, i rituali di ogni tipo. Se si vuole vedere il fenomeno, bisogna strapparsi gli occhiali delle miopie e ipermetropie e vedere a occhio nudo quello che c’è, non quello che dovrebbe esserci. Oltretutto è molto più piacevole e non bisognerebbe dimenticare che il teatro è soprattutto godimento, giubilo, celebrazione.

 

[1] Antonin Artaud, “Il teatro e il suo doppio”. Nel 1983 l’espressione diede il titolo del documentario realizzato nel 1983 da  Sheldon Rochlin e Maxine Harris, “Signals through the flames”, sull’esperienza del Living Theatre.

[2] “Teatro in esilio. La pedagogia teatrale nel lavoro del Teatro Nucleo”, Editoria & Spettacolo, collana Antigone, 2009.

 

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